Requiem for a dream




Ho sempre amato l'alternarsi delle stagioni. Ognuna ha un suo fascino particolare. L'estate della vita inneggiante a sè stessa. l'Autunno del suo colorato declino. L'inverno del bianco silenzio; e ho sempre adorato chi sceglie le stagioni come struttura narrativa, si tratti di un film, un libro, un fumetto, un videogioco.




Questo "Requiem for a dream", nella sua unicità, dipinge le storie dei suoi personaggi così, con le parole da cui ho iniziato: Vita, declino, silenzio.

Perchè inizia tutto da quell'estate di fine anni novanta, intrecciando le storie dei suoi protagonisti, nel contesto di quella Coney Island tanto nostalgica quanto inquietante, dove le strade schiumano di violenza e droga rabbiosa, e dove i demoni di ognuno di noi, alla fine, si ritrovano in quel gruppo così eterogeneo di persone dalle estrazioni sociali così diverse ed accomunate, chi più chi meno, dal grande sogno americano ormai decaduto da un pezzo.

Le loro vite, ritratti di bisogno del grande riscatto sociale, sono rappresentati da dei sogni seguiti talmente effimeri da far loro vivere il momento come se il domani del grande inverno distopico non dovesse mai arrivare.

Un'altra dose, un'altra puntata del loro tv show rendono i protagonisti degli zombies in cerca di rompere una routine che li sta schiacciando in uno stillicidio senza fine giorno dopo giorno.

E a quel punto la tv di noi che guardiamo increduli dall’altra parte allora diventa un quadro troppo scomodo, non tanto per l’orrore, la vergogna o la compassione dei personaggi da parte nostra. 

In questo scenario, a quel punto siamo noi a riconoscere le nostre facce negli spettacoli del loro varietà in tv acceso 24 ore al giorno.

Il nostro ruolo di spettatori si traspone dalla nostra poltrona alle scalinate di Quella emittente televisiva, facendoci guardare da fuori, e per i più svegli di noi, portandoci a pensare che quella dentro al loro "black mirror" e questa qua fuori nel nostro mondo reale non sono semplicemente vite.

Perché dopo l’amaro in bocca, dopo questi pesantissimi 102 minuti di questo soprendente Darren Aronofsky, questo mi è rimasto.

Dopo aver girato la faccia per il disgusto più di una volta per quello che vedevo, io non posso che cogliere il messaggio più alto in un film così: ci deve essere qualcosa di meglio di restare imprigionati dentro a sé stessi, o dentro ad un macabro spettacolo di showmen ciarlatani e male improvvisati, assieme alle loro ballerine sempre sorridenti; ci deve essere un modo migliore dove focalizzare ciò che conta e ciò per cui vale la pena di vivere. 

Certo, capisco che ad un film così non tutti possano arrivare preparati; va tuttavia detto che, per quanto sia inaffrontabile in certi punti, questo “Requiem”, alla fine, ci restituisce una foto di quello che siamo: un umanità che il più delle volte si perde in una folla di visi sconosciuti, con il rischio di smarrirci a nostra volta in attesa di una primavera che non arriverà mai per molti di noi.



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