American Sniper
Quando Andrea fece il militare era più o meno il ’93, forse prima. Lo ricordo distintamente perché io andavo ancora a scuola. In quell’anno persi l’abitudine di vestire quei pantaloni mimetici, quelli che stavano tanto bene con il mio chiodo di pelle. Già da un pezzo io suonavo nei ”Freakazoids!”, il mio primo vero gruppo grazie al quale cominciai a credere nella musica che poi mi avrebbe dato sostentamento fino ad oggi, ritmando ogni singolo passo della mia esistenza.
Ma Andrea, mio fratello, non prese bene la sua chiamata alle armi. Ricordo le macchinate la domenica a Cividale del Friuli con i miei genitori perché, quando durante la settimana lui chiamava casa, piangeva sempre, a vent'anni suonati. Quelle stesse sensazioni mi sarebbero tornate qualche anno più tardi, mentre i capelli li rasavano a me. Anche io piansi tanto, perché con quei capelli che cadevano per terra, quel giorno, vedevo dieci mesi di libertà che, di fronte a me, se ne sarebbero andati. Con il senno del poi devo ammettere che, tutto sommato, furono divertenti per me, scazzi del contesto a parte.
Ma ad Andrea non andò così. Lui fu più sfortunato. Perché se già il servizio in quella caserma per lui era una privazione rispetto alla sua vita fatta di uscite con gli amici e di ubriacate e risse leggendarie, la situazione precipitò quando, per una sommessa e apparentemente inesistente costrizione, il suo reggimento alpini fu movimentato per una missione dell’O.n.u in Mozambico.
In realtà non capii mai dove lui finì. La politica internazionale già al tempo si spostava vero il peace keeping, ovvero la tutela dei civili nelle guerre intestine ai territori. Mentre loro nei caricatori avevano proiettili blindati che, da distanza ravvicinata, forano un carro armato da parte a parte, noi avevamo i proiettili di Teflon, pensati per ferire e non uccidere. E mentre loro, in barba alle regole di ingaggio internazionale, posavano mine ovunque senza avvisare i governi avversari, noi sminavamo centinaia di chilometri quadrati centimetro su centimetro, per evitare che qualche bambino perdesse le gambe giocando in un prato.
Non si legga del patriottismo in queste righe. Io credo nella solidarietà umana nel suo stato più profondo. Ma anche se mi sembrava tutto così lontano, di quei giorni ricordo gli occhi di mia madre quando Andrea ci chiamava dall’Africa tramite il ponte aereo. Skype non era nemmeno una parola conosciuta. Internet non c’era. C’era solo una rimbombante e riecheggiante linea telefonica che, il più delle volte, cadeva dopo due minuti.
E la giostra era sempre quella. Ciao mamma, sto bene, mangio bene, dormo bene. Lo dicevano anche a me di dirlo, qualche anno più tardi. Solo che in Africa c’era la malaria e gli spari ad un paio di chilometri. Non è male, se si pensa che un calbro 7,62 fa 800 metri di portata massima. Ottocento metri in cui tutto può succedere. Ottocento-cazzo-di-metri in cui quella palla può attraversare la testa di un bambino, uccidere un presidente, rimbalzare su un muro o forare il telo della tenda di un insediamento O.N.U. Metti il caso che qualche dissidente vuole sparare un caricatore in direzione della caserma di Andrea. O di svuotarlo in aria per festeggiare. E poi di chi è la colpa? Boh. Tuo fratello muore, per una palla caduta durante una festa dal cielo. Come una mina antiuomo non scoperta. O come andare con una prostituta che ti attacca qualche malattia che ancora non esiste fino a quel momento.
Quello che per anni però, ho tentato di capire, in realtà, non era il come stesse mio fratello li, quando facevo a tempo a salutarlo in trenta secondi. Li era distante. Fu l’averlo davanti quando tornò. Furono i suoi di occhi, ad inquietarmi, come quelli di mamma mesi prima. Fu il tono della sua voce, furono i suoi discorsi, umani e profondi come non mai.
Era un’Andrea diverso, il mio fratellone, quando tornò. E se da un lato percepivo una sua crescita, dall’altro lo vedevo che tirava verso una china brutta.
L’esperienza, per un breve periodo, ci unì molto. Lui sembrava più protettivo verso di me. Era bello. Poi ci fu una volta un cui, ubriacandoci insieme, arrivammo a parlare di quello che aveva visto li.
Mi parlò degli occhi dei bambini; ancora gli occhi di qualcuno, quello sguardo vuoto e penetrante al tempo stesso. Quella miseria di chi, appena venuto al mondo, aveva visto e vissuto già troppe cose.
Mi parlò di donne abusate dai militari, visto che il mestiere più vecchio del mondo sembrava funzionare anche li, ma con conseguenze molto più funeste. Fu una lunga, interessante e straziante serata.
Io sono stato fortunato. Nella caserma dove ho fatto il militare si stava solo 10 mesi, non c’era nonnismo. E si mangiava bene sul serio. Non ho mai voluto partire per la guerra, nemmeno quando si raccoglievano volontari per il Kosovo. Ripensavo ad Andrea. Agli occhi, alle donne, alla fame, a quei tre milioni al mese che altri come me cercavano con fama e fortuna.
A me bastavano gli occhi. Quelli dei bambini raccontati, di mia madre, e quelli di Andrea, che mi ha voluto bene come se non ci fosse stato un domani in quell’anno dal suo ritorno.
Ecco. Questo “American Sniper” ieri sera, mi ha fatto ripensare a tutto quell’anno successivo. Ed un anno compresso in 133 minuti belli pesi fa male forte. Nel silenzio della mia stanza, perché mi rimbombava dentro, ripensando che ogni generazione (o quasi) deve sempre avere la sua guerra da combattere, ed io, per fortuna, ho preferito fare qualche turno di guardia in più a guardare che, sotto alle macchine che entravano in caserma, non ci fossero esplosivi. Dei due mali ho scelto il il minore. A ripensarci in quei mesi qualcuno ci era morto anche, in altre caserme, ma la statistica del mio buonsenso me lo fece preferire ad un proiettile vagante.
Il fatto che questo rappresenti un ottimo punto di vista sulla guerra nei messaggi che porta con se lo mette nel podio dei film da guardare, forse non al livello di “Full metal Jacket”. Ma dategli tempo a Clint Eastwood, se continua così ci arriva a livello di Kubrik.
Perché quella paura del protagonista, il suo punto di vista di padre, l’incontro in quella scena con suo fratello, oltre che a riempirmi gli occhi di lacrime a ripensare a quella notte con Andrea, restituisce al mondo un pavimento durissimo, nel quale ci ritroviamo sputati dopo che questo film ci ha masticato per bene. Dall’inizio alla fine.
Nell’attesa di guardare l’ultimo film di Eastwood nelle sale in questi giorni, rivivere questa esperienza mi è servito, come mi capita spesso in questo periodo, a percepire con maggiore chiarezza la profondità delle tematiche che il regista sceglie di affrontare ogni volta. Da “Million Dollar baby” a “i ponti di Madison County”, arrivando a quel magistrale “Gran Torino”, Il cowboy dagli occhi di ghiaccio (o il Dirty Harry, che dir si voglia) ha maturato un’esperienza che lascia dentro una desolazione attorno ad un senso di sarcificio dall’enorme valore umano, che non può far passare questo “american sniper” se non che per quello che, alla fine è: una grande storia della guerra oggi. Quella che invece di cambiare l’umanità migliorandola (se lo scopo finale fosse veramente la pace) cambia gli uomini, Lasciandogli dentro i segni indelebili di un umanità che non impara proprio mai.
Voto: 5/5
Clint, non ti passa proprio mai il vizio di farci perdere nelle storie che ti piace tanto riportarci in maniera così autentica? Direi di no. Direi che va bene. Direi grazie.
p.s. Non ho più messo le mimetiche
P.p.s. Non ce lo metto il trailer: ci metto questo che mi ricorda Andrea, quell'anno li
p.s. Non ho più messo le mimetiche
P.p.s. Non ce lo metto il trailer: ci metto questo che mi ricorda Andrea, quell'anno li
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